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CAPITOLO 5 – IL DE VULGARI ELOQUENTIA
E’ un trattato scritto in latino, ideato e composto nei primi anni dell'esilio (1303-
1304), contemporaneo o di poco anteriore alla stesura del primo libro del Convivio, dove
sotto un altro punto di vista, ma con evidente analogia di concetti, si affronta lo stesso
problema della lingua e dell'arte in volgare. Nella lucida concisione di un pensiero, che vi
si organizza dialetticamente su se stesso con logica e stringente necessità, e negli
atteggiamenti stilistici, che assecondano con pause o clausole ritmiche ("cursus") il giro
del periodo e l'animato tono della discussione, il trattato si rivela come il frutto di una
salda cultura scolastica e dettatoria. Il fine didattico a cui s'ispira lo colloca nel solco della
retorica tradizionale ("eloquentia", "arte del dire"); ed era, nelle intenzioni di Dante,
indirizzato esclusivamente ai rimatori forniti di cultura e d'ingegno, perché nelle loro
composizioni non procedessero "casualiter", con pieno abbandono all'onda della loro
ispirazione, ma la dominassero "regulariter", con magistero d'arte, padroneggiando nel
tempo stesso la materia e il reale.
Dante concepì la sua opera come sintesi e somma di tutte le varie esperienze di
lingua e di stile, in prosa e in verso, attraverso le quali era passata la sua arte; qui
giustificata in se stessa nel suo valore formale ed espressivo: dichiarata e illustrata entro
lo svolgimento storico della lingua e della cultura letteraria italiana. Purtroppo il trattato,
incominciato con bell'impeto dimostrativo, rimase bruscamente interrotto a mezzo il
capitolo decimo quarto del libro secondo, proprio quando l'insegnamento dell'espressione
d'arte in volgare ("doctrina vulgaris eloquentiae") cominciava a disnodarsi e a concretarsi
con dovizia di argomentazioni e di esempi. Così come ci è pervenuta, l'opera ci nega la
possibilità di fissarne con esattezza la particolare fisionomia e di determinare quanto
manca alla sua compiutezza, pur sapendo per espliciti rimandi (II, IV, 1; XIII, 8) ch'essa
si sarebbe per lo meno estesa a un quarto libro. La prima pubblicazione a stampa è quella
curata da Jacopo Corbinelli a Parigi nel 1577.
La materia o "subiectum" che Dante pone a fondamento della sua trattazione è la
"locutio vulgaris"; il linguaggio umano inteso nella sua universalità, come mezzo di
De vulgari eloquentia 33
espressione e di comunicazione da uomo a uomo; "naturalis", in quanto risponde ai fini
immanenti alla natura umana ordinata essenzialmente alla vita sociale o politica, ma
opera dello spirito e della libertà, che s'aggiunge allo sforzo della natura e la continua
nella sua stessa linea. Accanto alla "locutio vulgaris" si pone, ma non sempre, una
"locutio secundaria potius artificialis": il linguaggio della cultura, espressione di una
determinata civiltà, come svolgimento propriamente umano e principalmente
intellettuale, morale (pratico e artistico) e spirituale, nella più generica accezione della
parola. Questo linguaggio della cultura si dice anche "grammatica", come forma
linguistica ideale che si conquista con lungo addestramento e assiduo studio,
imponendosi come norma a coloro che, nella vivente realtà del linguaggio, prendono
coscienza del suo valore espressivo. A dar sostanza di verità a questi due concetti
("locutio vulgaris" e "locutio secundaria") Dante procede con ragionata dimostrazione
che occupa tutto il primo libro e ne dichiara il carattere specifico di introduzione
generale. Il linguaggio, come attività spirituale che presuppone il pensiero, è necessario
soltanto all'uomo; non agli angeli, che nella loro beatitudine celeste possiedono una
reciproca intuizione dei loro pensieri; non ai bruti, che sono guidati dall'istinto. Solo
l'uomo, che è un composto di anima e di corpo, ha bisogno della parola: un "signum"
intellettuale e sensibile a un tempo, di cui si serve per far presente agli altri il proprio
verbo interiore ("ratio") e risvegliare negli altri la stessa attività del pensiero; in modo
che colui che ascolta pensi ciò che pensa l'intelligenza di colui che parla. Animale
naturalmente socievole, l'uomo tende a manifestarsi mettendo in luce la sua persona
morale con quell'attività del pensiero ("forma locutionis") che fu concreata con l'anima
prima. Ond'è ragionevole supporre che Adamo, creato in istato di grazia, sia stato il
primo parlante, manifestando con la parola la sua gioia e la sua gratitudine verso Dio
creatore.
Di questa stessa attività di pensiero, che fu un dono gratuito di Dio e per la quale
il primo parlante si rivelò spontaneamente come persona rilegata a Dio per amore, si
servirono i discendenti di Adamo fino a Cristo, perché il linguaggio della grazia era pure
il linguaggio umano del figlio di Dio. L'idioma che Adamo si foggiò con le sue labbra si
storicizzò nella lingua del popolo ebraico: fu l'ebraico. Ma quel naturale orgoglio che fece
gli uomini ribelli a Dio al tempo della torre di Babele, infranse l'unità spirituale della
De vulgari eloquentia 34
prima famiglia umana. I vari gruppi dei costruttori della torre, volti appassionatamente ai
loro fini particolari e soggettivi, non s'intesero più tra loro. Così la primitiva "forma
locutionis" propria della persona morale si continuò soltanto nel popolo eletto, mentre,
accanto a essa, sorsero altre "formae locutionis" nate dall'orgoglio e dall'egoismo. Esse
originarono nuovi idiomi, come espressione comune delle singole comunità sociali che si
costituirono vitalmente per opera della ragione. Queste comunità si dispersero in varie
direzioni per tutta la terra; e quella che si diffuse in Europa portò con sé un unico idioma,
presentemente differenziato in triplice varietà ("tripharium"): a nord il germanico, con i
suoi molteplici volgari; a sud-est il greco; a mezzogiorno un terzo idioma, che a sua volta
si differenzia nei tre volgari d'"oc" d'"oil" e di "sì". Quest'ultimo "idioma tripharium" non
può essersi costituito al tempo della confusione babelica delle lingue, opponendosi a tale
ipotesi la convenienza di molte voci nei tre volgari che lo differenziano: convenienza da
cui si deduce un'anteriore unità. Se poi osserviamo il volgare di "sì", eccolo differenziato
in altri volgari particolari.
Il linguaggio umano - eccetto quello che fu concreato con l'anima del primo
parlante - si ricostituì dunque come mezzo di comunicazione da uomo a uomo dopo la
confusione delle lingue, e poiché l'uomo è un animale estremamente instabile e mutevole,
il suo linguaggio, in quanto effetto della libera attività dello spirito, continuamente si
trasforma e si differenzia per lontananza di tempi e di luoghi, come nel tempo e nello
spazio si differenziano e si trasformano usi e costumi. Per ovviare a tale instabilità
sorsero coloro che determinarono le forme in cui artisticamente si realizza l'espressione
("inventores gramaticae facultatis"), non essendo la grammatica che una "certa identità
di linguaggio inalterabile attraverso a tempi e luoghi diversi". Un linguaggio letterario o
"secondario" nelle cui forme espressive concorda, come libera attività dello spirito che
crea, una vasta comunità di parlanti, opponendosi all'arbitrio individuale. Questo
linguaggio permette agli uomini di intendersi tra di loro anche se di regioni diverse, e di
tramandare il loro pensiero ai discendenti più lontani. Chiarito in tal modo il concetto di
linguaggio, nella sua universalità di natura e di lingua letteraria o "grammatica", le cui
forme ideali, nella vivente realtà del linguaggio, coincidono con le forme storiche, Dante
passa a paragonare tra loro le tre lingue letterarie (francese, provenzale e italiano) nate in
seno al triforme idioma dell'Europa meridionale.
De vulgari eloquentia 35
Egli rileva subito che una certa preminenza pare arrogarsi la lingua letteraria
italiana, per il fatto che i codificatori dell'uso ("gramaticae positores") hanno preso "sic"
come avverbio di affermazione. Tuttavia egli riconosce alla lingua d'"oil", in virtù della
sua facile e piacevole diffusione, il vanto della prosa narrativa e didattica; a quella d'"oc",
come più dolce e più perfetta, il merito di aver servito ai primi poeti in volgare; e a quella
di "sì" un duplice pregio: primo, perché coloro che presero coscienza del suo valore e
l'ebbero cara, poetarono con dolcezza d'accenti e con nobiltà di pensiero, come Cino da
Pistoia e il suo amico (Dante); secondo, perché mostra d'appoggiarsi maggiormente alla
lingua letteraria ("gramatica") che è comune: cioè al latino, che sovrasta alle tre lingue
volgari. Con questi due criteri, che sono d'arte e di maggiore aderenza delle forme
espressive volgari alle forme letterarie del latino, Dante passa in rassegna, paragonandole
tra loro, le varietà dialettali del volgare italico ("vulgare latium"), individuandole
ciascuna entro i limiti segnati dalla geografia e dalla storia.
Sono quattordici le varietà principali; e queste si differenziano in varietà
secondarie; e ognuna di esse in ulteriori varietà, sì che a volerle annoverare si
supererebbe il migliaio. In mezzo a tanta varietà di parlate regionali, municipali e locali,
Dante si pone in cerca di una lingua che risponda, in se stessa, alle esigenze di una lingua
letteraria che sia veramente italiana ("decentiorem atque illustrem Italiae loquelam"). Ed
è qui che si rivela lo spirito informatore del trattato: lo spirito di Dante, nel volgare
italico, come egli stesso afferma nel Convivio (I, XIII, 4 sgg.), sente vibrare la vita della
sua anima, profondamente radicata nella vita della sua nazione, e perciò nella storia dello
spirito italiano. Sotto questa luce e in armonia con i due criteri prima fissati, di stile e di
lingua, Dante esamina i singoli dialetti italiani nell'immediatezza delle loro espressioni
concrete e nella particolarità delle loro pronunzie; e li condanna tutti, riconoscendo però
che alla lingua letteraria d'Italia si sono avvicinati quanti si risollevarono dal linguaggio
regionale o municipale. In primo luogo i poeti della Corte di Federigo II e di Manfredi, i
due principi che favorirono quanto nelle cose umane è opera della ragione e delle virtù;
onde ciò che di meglio compirono allora gli italiani uscì dalla loro Corte; e poiché il loro
titolo era di re di Sicilia, si disse siciliana la prima produzione lirica nata nella penisola
italiana.
De vulgari eloquentia 36
La perfezione artistica nelle proprie singole parlate Dante la riconosce ai toscani:
Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, "un altro" (se stesso) e Cino da Pistoia; ai bolognesi
Guido Guinizelli, Guido Ghisilieri, Fabruzzo e Onesto; ai faentini Tommaso e Ugolino
Bucciola e a Ildebrandino da Padova. Quanto ai dialetti settentrionali di confine, Dante
nega che possano assurgere al vero parlare italiano ("vere latium"), a causa della loro
contiguità a parlate straniere. Poiché ciò che Dante cerca è un linguaggio letterario che
sia, in se stesso, spiritualmente italiano ("latium illustre"); il quale c'è, esiste, dando
sentore della sua presenza in ogni città d'Italia, senza essere di nessuna.
Italianità del linguaggio, la quale è un "unum in multis", qualcosa che non si può
cogliere nella sua essenza semplicissima se non trascendentalmente, attraverso le sue
manifestazioni concrete, come segni esteriori che ne dichiarano l'esistenza. Italianità che
si rivela nei costumi, nelle disposizioni naturali e nel linguaggio di tutti gli italiani,
costituendo in se stessa l'essenza propria di quel volgare "illustre, cardinale, aulico e
curiale", sul quale si misurano, si pesano e si paragonano i vari volgari municipali d'Italia.
In ordine alla sua essenza (il "quid"), questo volgare deve dirsi "illustre", perché,
sublimato dall'arte, si illumina e illumina: cioè si mette in luce nelle sue proprie capacità
espressive dominando gli animi, mentre dà luce di gloria a coloro che lo coltivano e se ne
servono. Ne sono esempi Cino da Pistoia e l'amico suo (Dante). In ordine alle sue
operazioni, tale volgare deve dirsi "cardinale", in quanto agisce da cardine; ossia, con le
sue proprie virtù, da vero "pater familias", trae i dialetti municipali dal loro stato di
selvatichezza o incultura e li solleva a una sfera superiore di cultura, che è appunto la
"civilitas" italiana. E poiché tale linguaggio è manifestazione di "civilitas", che è "forma
rationis", deve ancora definirsi "aulico" e "curiale". E cioè: "colto o civile", come è il
linguaggio della Corte ("aula"), che è la casa comune del regno e la governatrice augusta
di tutte le sue parti. E "curiale", perché l'esprimersi civilmente è un dovere che scaturisce
dal seno stesso della "civilitas", che è vita di ragione e di virtù: un dovere morale, che le
"curie" sanzionano come equilibrata norma di agire ("curialitas") e che in Italia è dettato
dalla sua curia più alta. È vero che in Italia non c'è, come in Germania, una curia unificata
da un solo principe; ma ce ne sono le membra, le quali sono unificate dal lume della
ragione naturale, che è un dono gratuito di Dio.
De vulgari eloquentia 37
Questa ragione naturale, a cui Dante allude, è quella che opera vitalmente nelle
cose umane, stringendo tra loro gli uomini in organismi sociali sempre più vasti e
complessi, dalla "domus" alla "civitas", dal "regnum" all'"imperium" (Convivio, IV, 4;
Monarchia, I, 5). Il volgare che è di tutta l'Italia, e nel quale poetarono maestri illustri di
distinte regioni, è il "vulgare latium": il linguaggio della "civilitas" italiana; il "volgare
italico", che Dante esalta nel Convivio (I, VII, 5) in quanto per esso si sente unito, in una
vita che è di storia, di usanze e di costumi, "con li parenti e con li proprii cittadini e con la
propria gente". Fissati i caratteri del volgare illustre, Dante passa, nel secondo libro, a
farlo oggetto della sua arte del dire ("eloquentia"). Il volgare illustre, che si può usare
tanto in prosa quanto in verso, esige uomini che concordino con lui per similitudine di
natura ed eccellano perciò per ingegno e dottrina.
Questa conformità ("convenientia") si richiede ancora circa gli argomenti da
trattarsi; i quali non possono essere se non il massimo e l'ottimo secondo la triplice natura
dell'uomo (vegetativa, sensitiva e razionale) ordinata a un triplice fine: utile, dilettevole e
onesto; e cioè: "salus, venus et virtus", prodezza d'armi, gaudio d'amore, rettitudine della
volontà ("drittura"). Tre motivi poetici, nel primo dei quali si distinse Bertrand de Born,
nel secondo eccelsero Arnaldo Daniello e Cino da Pistoia, e, nel terzo, Giraut de Borneil
e Dante. Tra le forme metriche consuete, canzone, ballata e sonetto, soltanto la prima si
conviene al volgare illustre, perché propria dello stile più elevato o tragico; mentre le
altre due s'addicono allo stile mediano o comico; al di sotto del quale è lo stile umile o
elegiaco. Distinzione di stili sanzionata dai retori antichi, ma legata medievalmente a tre
forme letterarie, che sono poi tre atteggiamenti della coscienza estetica. Poiché la poesia
è "invenzione o creazione fantastica espressa in versi con bello stile e arte musicale", la
canzone, che è la forma lirica più nobile, non deve essere composta "a caso". Essa deve
esemplarsi sul modello dei grandi poeti latini, "regulares", poiché "i grandi hanno
poetato con lingua e arte regolare". Ideale dantesco di una poesia in volgare "italico", che
si sollevi alle altezze della poesia classica, imitandola in ciò che è il suo principio
interiore ("forma"); cioè ricreando in noi stessi l'attività del poeta creatore, mentre
tendeva alla bellezza dell'opera come fine in sé e "supremo" ("lo bello stile che m'ha fatto
onore").
De vulgari eloquentia 38
Ma a fare ciò occorrono, egli dice, ispirazione naturale, fervido ingegno, lungo
esercizio d'arte come regolazione impressa nella materia, e immediata intuizione sul da
farsi "scientia" nell'ordine operativo: e perciò "abito" o virtù dell'intelligenza, che è
propriamente la virtù d'arte. Dopo aver così dichiarato la sua poetica, Dante passa a
trattare dell'endecasillabo come il verso che meglio conviene alla canzone per la durata
ritmica e le possibilità che offre al pensiero, alla costruzione della frase e alla scelta dei
vocaboli. Se associato al settenario, e purché lo subordini a sé, l'endecasillabo acquista
rilievo e vigore. In relazione allo stile tragico Dante fissa non solo il tipo e il carattere
della "constructio" - organismo della frase in cui si congiungano insieme profondità di
pensiero ed eleganza di forma - ma ancora i criteri di scelta delle singole parole.
Finalmente egli può esporre, con larga copia di esempi, la teoria della canzone
come complesso artistico di stanze, la natura della stanza e gli elementi ond'è costituita:
la musica, la disposizione delle rime e il numero dei versi. Ma qui l'opera s'interrompe
bruscamente. E tuttavia, anche così incompiuta, essa resta un documento prezioso di
quella che fu la prima fase del pensiero di Dante, esule da Firenze e ormai peregrino per
ogni parte d'Italia. Sul fondamento di una viva esperienza d'artista e di una larga
informazione letteraria, con originalità di ricerche e di logiche deduzioni, egli viene
applicando alla storia del linguaggio e alla formazione degli idiomi o lingue comuni il
concetto aristotelico tomista della "civilitas"; premessa a ulteriori svolgimenti di
pensiero, che informeranno il Convivio, la Monarchia e la Divina Commedia.
Il sentimento d'italianità che anima il primo libro con la ricerca del "volgare
illustre", si associa in Dante all'amore della poesia, come ispirazione d'ordine naturale che
la bellezza suscita: sia questa la bellezza, che nelle cose ci diletta come un bene
dell'anima; sia questa la bellezza, che nell'azione ci esalta come un bene della volontà: un
bene morale (Rime). Ma qui Dante si individua tra i poeti italiani come il cantore della
rettitudine ("drittura") e se ne dà vanto in nome di quel volgare illustre che glorifica i
suoi cultori; un'esperienza che egli sente di dover esaltare poiché "per la dolcezza di tale
gloria" si sente superiore ai dolori dell'esilio: "huius dulcedine gloriae nostrum exilium
postergamus".
De vulgari eloquentia 39

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  • 1. CAPITOLO 5 – IL DE VULGARI ELOQUENTIA E’ un trattato scritto in latino, ideato e composto nei primi anni dell'esilio (1303- 1304), contemporaneo o di poco anteriore alla stesura del primo libro del Convivio, dove sotto un altro punto di vista, ma con evidente analogia di concetti, si affronta lo stesso problema della lingua e dell'arte in volgare. Nella lucida concisione di un pensiero, che vi si organizza dialetticamente su se stesso con logica e stringente necessità, e negli atteggiamenti stilistici, che assecondano con pause o clausole ritmiche ("cursus") il giro del periodo e l'animato tono della discussione, il trattato si rivela come il frutto di una salda cultura scolastica e dettatoria. Il fine didattico a cui s'ispira lo colloca nel solco della retorica tradizionale ("eloquentia", "arte del dire"); ed era, nelle intenzioni di Dante, indirizzato esclusivamente ai rimatori forniti di cultura e d'ingegno, perché nelle loro composizioni non procedessero "casualiter", con pieno abbandono all'onda della loro ispirazione, ma la dominassero "regulariter", con magistero d'arte, padroneggiando nel tempo stesso la materia e il reale. Dante concepì la sua opera come sintesi e somma di tutte le varie esperienze di lingua e di stile, in prosa e in verso, attraverso le quali era passata la sua arte; qui giustificata in se stessa nel suo valore formale ed espressivo: dichiarata e illustrata entro lo svolgimento storico della lingua e della cultura letteraria italiana. Purtroppo il trattato, incominciato con bell'impeto dimostrativo, rimase bruscamente interrotto a mezzo il capitolo decimo quarto del libro secondo, proprio quando l'insegnamento dell'espressione d'arte in volgare ("doctrina vulgaris eloquentiae") cominciava a disnodarsi e a concretarsi con dovizia di argomentazioni e di esempi. Così come ci è pervenuta, l'opera ci nega la possibilità di fissarne con esattezza la particolare fisionomia e di determinare quanto manca alla sua compiutezza, pur sapendo per espliciti rimandi (II, IV, 1; XIII, 8) ch'essa si sarebbe per lo meno estesa a un quarto libro. La prima pubblicazione a stampa è quella curata da Jacopo Corbinelli a Parigi nel 1577. La materia o "subiectum" che Dante pone a fondamento della sua trattazione è la "locutio vulgaris"; il linguaggio umano inteso nella sua universalità, come mezzo di De vulgari eloquentia 33
  • 2. espressione e di comunicazione da uomo a uomo; "naturalis", in quanto risponde ai fini immanenti alla natura umana ordinata essenzialmente alla vita sociale o politica, ma opera dello spirito e della libertà, che s'aggiunge allo sforzo della natura e la continua nella sua stessa linea. Accanto alla "locutio vulgaris" si pone, ma non sempre, una "locutio secundaria potius artificialis": il linguaggio della cultura, espressione di una determinata civiltà, come svolgimento propriamente umano e principalmente intellettuale, morale (pratico e artistico) e spirituale, nella più generica accezione della parola. Questo linguaggio della cultura si dice anche "grammatica", come forma linguistica ideale che si conquista con lungo addestramento e assiduo studio, imponendosi come norma a coloro che, nella vivente realtà del linguaggio, prendono coscienza del suo valore espressivo. A dar sostanza di verità a questi due concetti ("locutio vulgaris" e "locutio secundaria") Dante procede con ragionata dimostrazione che occupa tutto il primo libro e ne dichiara il carattere specifico di introduzione generale. Il linguaggio, come attività spirituale che presuppone il pensiero, è necessario soltanto all'uomo; non agli angeli, che nella loro beatitudine celeste possiedono una reciproca intuizione dei loro pensieri; non ai bruti, che sono guidati dall'istinto. Solo l'uomo, che è un composto di anima e di corpo, ha bisogno della parola: un "signum" intellettuale e sensibile a un tempo, di cui si serve per far presente agli altri il proprio verbo interiore ("ratio") e risvegliare negli altri la stessa attività del pensiero; in modo che colui che ascolta pensi ciò che pensa l'intelligenza di colui che parla. Animale naturalmente socievole, l'uomo tende a manifestarsi mettendo in luce la sua persona morale con quell'attività del pensiero ("forma locutionis") che fu concreata con l'anima prima. Ond'è ragionevole supporre che Adamo, creato in istato di grazia, sia stato il primo parlante, manifestando con la parola la sua gioia e la sua gratitudine verso Dio creatore. Di questa stessa attività di pensiero, che fu un dono gratuito di Dio e per la quale il primo parlante si rivelò spontaneamente come persona rilegata a Dio per amore, si servirono i discendenti di Adamo fino a Cristo, perché il linguaggio della grazia era pure il linguaggio umano del figlio di Dio. L'idioma che Adamo si foggiò con le sue labbra si storicizzò nella lingua del popolo ebraico: fu l'ebraico. Ma quel naturale orgoglio che fece gli uomini ribelli a Dio al tempo della torre di Babele, infranse l'unità spirituale della De vulgari eloquentia 34
  • 3. prima famiglia umana. I vari gruppi dei costruttori della torre, volti appassionatamente ai loro fini particolari e soggettivi, non s'intesero più tra loro. Così la primitiva "forma locutionis" propria della persona morale si continuò soltanto nel popolo eletto, mentre, accanto a essa, sorsero altre "formae locutionis" nate dall'orgoglio e dall'egoismo. Esse originarono nuovi idiomi, come espressione comune delle singole comunità sociali che si costituirono vitalmente per opera della ragione. Queste comunità si dispersero in varie direzioni per tutta la terra; e quella che si diffuse in Europa portò con sé un unico idioma, presentemente differenziato in triplice varietà ("tripharium"): a nord il germanico, con i suoi molteplici volgari; a sud-est il greco; a mezzogiorno un terzo idioma, che a sua volta si differenzia nei tre volgari d'"oc" d'"oil" e di "sì". Quest'ultimo "idioma tripharium" non può essersi costituito al tempo della confusione babelica delle lingue, opponendosi a tale ipotesi la convenienza di molte voci nei tre volgari che lo differenziano: convenienza da cui si deduce un'anteriore unità. Se poi osserviamo il volgare di "sì", eccolo differenziato in altri volgari particolari. Il linguaggio umano - eccetto quello che fu concreato con l'anima del primo parlante - si ricostituì dunque come mezzo di comunicazione da uomo a uomo dopo la confusione delle lingue, e poiché l'uomo è un animale estremamente instabile e mutevole, il suo linguaggio, in quanto effetto della libera attività dello spirito, continuamente si trasforma e si differenzia per lontananza di tempi e di luoghi, come nel tempo e nello spazio si differenziano e si trasformano usi e costumi. Per ovviare a tale instabilità sorsero coloro che determinarono le forme in cui artisticamente si realizza l'espressione ("inventores gramaticae facultatis"), non essendo la grammatica che una "certa identità di linguaggio inalterabile attraverso a tempi e luoghi diversi". Un linguaggio letterario o "secondario" nelle cui forme espressive concorda, come libera attività dello spirito che crea, una vasta comunità di parlanti, opponendosi all'arbitrio individuale. Questo linguaggio permette agli uomini di intendersi tra di loro anche se di regioni diverse, e di tramandare il loro pensiero ai discendenti più lontani. Chiarito in tal modo il concetto di linguaggio, nella sua universalità di natura e di lingua letteraria o "grammatica", le cui forme ideali, nella vivente realtà del linguaggio, coincidono con le forme storiche, Dante passa a paragonare tra loro le tre lingue letterarie (francese, provenzale e italiano) nate in seno al triforme idioma dell'Europa meridionale. De vulgari eloquentia 35
  • 4. Egli rileva subito che una certa preminenza pare arrogarsi la lingua letteraria italiana, per il fatto che i codificatori dell'uso ("gramaticae positores") hanno preso "sic" come avverbio di affermazione. Tuttavia egli riconosce alla lingua d'"oil", in virtù della sua facile e piacevole diffusione, il vanto della prosa narrativa e didattica; a quella d'"oc", come più dolce e più perfetta, il merito di aver servito ai primi poeti in volgare; e a quella di "sì" un duplice pregio: primo, perché coloro che presero coscienza del suo valore e l'ebbero cara, poetarono con dolcezza d'accenti e con nobiltà di pensiero, come Cino da Pistoia e il suo amico (Dante); secondo, perché mostra d'appoggiarsi maggiormente alla lingua letteraria ("gramatica") che è comune: cioè al latino, che sovrasta alle tre lingue volgari. Con questi due criteri, che sono d'arte e di maggiore aderenza delle forme espressive volgari alle forme letterarie del latino, Dante passa in rassegna, paragonandole tra loro, le varietà dialettali del volgare italico ("vulgare latium"), individuandole ciascuna entro i limiti segnati dalla geografia e dalla storia. Sono quattordici le varietà principali; e queste si differenziano in varietà secondarie; e ognuna di esse in ulteriori varietà, sì che a volerle annoverare si supererebbe il migliaio. In mezzo a tanta varietà di parlate regionali, municipali e locali, Dante si pone in cerca di una lingua che risponda, in se stessa, alle esigenze di una lingua letteraria che sia veramente italiana ("decentiorem atque illustrem Italiae loquelam"). Ed è qui che si rivela lo spirito informatore del trattato: lo spirito di Dante, nel volgare italico, come egli stesso afferma nel Convivio (I, XIII, 4 sgg.), sente vibrare la vita della sua anima, profondamente radicata nella vita della sua nazione, e perciò nella storia dello spirito italiano. Sotto questa luce e in armonia con i due criteri prima fissati, di stile e di lingua, Dante esamina i singoli dialetti italiani nell'immediatezza delle loro espressioni concrete e nella particolarità delle loro pronunzie; e li condanna tutti, riconoscendo però che alla lingua letteraria d'Italia si sono avvicinati quanti si risollevarono dal linguaggio regionale o municipale. In primo luogo i poeti della Corte di Federigo II e di Manfredi, i due principi che favorirono quanto nelle cose umane è opera della ragione e delle virtù; onde ciò che di meglio compirono allora gli italiani uscì dalla loro Corte; e poiché il loro titolo era di re di Sicilia, si disse siciliana la prima produzione lirica nata nella penisola italiana. De vulgari eloquentia 36
  • 5. La perfezione artistica nelle proprie singole parlate Dante la riconosce ai toscani: Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, "un altro" (se stesso) e Cino da Pistoia; ai bolognesi Guido Guinizelli, Guido Ghisilieri, Fabruzzo e Onesto; ai faentini Tommaso e Ugolino Bucciola e a Ildebrandino da Padova. Quanto ai dialetti settentrionali di confine, Dante nega che possano assurgere al vero parlare italiano ("vere latium"), a causa della loro contiguità a parlate straniere. Poiché ciò che Dante cerca è un linguaggio letterario che sia, in se stesso, spiritualmente italiano ("latium illustre"); il quale c'è, esiste, dando sentore della sua presenza in ogni città d'Italia, senza essere di nessuna. Italianità del linguaggio, la quale è un "unum in multis", qualcosa che non si può cogliere nella sua essenza semplicissima se non trascendentalmente, attraverso le sue manifestazioni concrete, come segni esteriori che ne dichiarano l'esistenza. Italianità che si rivela nei costumi, nelle disposizioni naturali e nel linguaggio di tutti gli italiani, costituendo in se stessa l'essenza propria di quel volgare "illustre, cardinale, aulico e curiale", sul quale si misurano, si pesano e si paragonano i vari volgari municipali d'Italia. In ordine alla sua essenza (il "quid"), questo volgare deve dirsi "illustre", perché, sublimato dall'arte, si illumina e illumina: cioè si mette in luce nelle sue proprie capacità espressive dominando gli animi, mentre dà luce di gloria a coloro che lo coltivano e se ne servono. Ne sono esempi Cino da Pistoia e l'amico suo (Dante). In ordine alle sue operazioni, tale volgare deve dirsi "cardinale", in quanto agisce da cardine; ossia, con le sue proprie virtù, da vero "pater familias", trae i dialetti municipali dal loro stato di selvatichezza o incultura e li solleva a una sfera superiore di cultura, che è appunto la "civilitas" italiana. E poiché tale linguaggio è manifestazione di "civilitas", che è "forma rationis", deve ancora definirsi "aulico" e "curiale". E cioè: "colto o civile", come è il linguaggio della Corte ("aula"), che è la casa comune del regno e la governatrice augusta di tutte le sue parti. E "curiale", perché l'esprimersi civilmente è un dovere che scaturisce dal seno stesso della "civilitas", che è vita di ragione e di virtù: un dovere morale, che le "curie" sanzionano come equilibrata norma di agire ("curialitas") e che in Italia è dettato dalla sua curia più alta. È vero che in Italia non c'è, come in Germania, una curia unificata da un solo principe; ma ce ne sono le membra, le quali sono unificate dal lume della ragione naturale, che è un dono gratuito di Dio. De vulgari eloquentia 37
  • 6. Questa ragione naturale, a cui Dante allude, è quella che opera vitalmente nelle cose umane, stringendo tra loro gli uomini in organismi sociali sempre più vasti e complessi, dalla "domus" alla "civitas", dal "regnum" all'"imperium" (Convivio, IV, 4; Monarchia, I, 5). Il volgare che è di tutta l'Italia, e nel quale poetarono maestri illustri di distinte regioni, è il "vulgare latium": il linguaggio della "civilitas" italiana; il "volgare italico", che Dante esalta nel Convivio (I, VII, 5) in quanto per esso si sente unito, in una vita che è di storia, di usanze e di costumi, "con li parenti e con li proprii cittadini e con la propria gente". Fissati i caratteri del volgare illustre, Dante passa, nel secondo libro, a farlo oggetto della sua arte del dire ("eloquentia"). Il volgare illustre, che si può usare tanto in prosa quanto in verso, esige uomini che concordino con lui per similitudine di natura ed eccellano perciò per ingegno e dottrina. Questa conformità ("convenientia") si richiede ancora circa gli argomenti da trattarsi; i quali non possono essere se non il massimo e l'ottimo secondo la triplice natura dell'uomo (vegetativa, sensitiva e razionale) ordinata a un triplice fine: utile, dilettevole e onesto; e cioè: "salus, venus et virtus", prodezza d'armi, gaudio d'amore, rettitudine della volontà ("drittura"). Tre motivi poetici, nel primo dei quali si distinse Bertrand de Born, nel secondo eccelsero Arnaldo Daniello e Cino da Pistoia, e, nel terzo, Giraut de Borneil e Dante. Tra le forme metriche consuete, canzone, ballata e sonetto, soltanto la prima si conviene al volgare illustre, perché propria dello stile più elevato o tragico; mentre le altre due s'addicono allo stile mediano o comico; al di sotto del quale è lo stile umile o elegiaco. Distinzione di stili sanzionata dai retori antichi, ma legata medievalmente a tre forme letterarie, che sono poi tre atteggiamenti della coscienza estetica. Poiché la poesia è "invenzione o creazione fantastica espressa in versi con bello stile e arte musicale", la canzone, che è la forma lirica più nobile, non deve essere composta "a caso". Essa deve esemplarsi sul modello dei grandi poeti latini, "regulares", poiché "i grandi hanno poetato con lingua e arte regolare". Ideale dantesco di una poesia in volgare "italico", che si sollevi alle altezze della poesia classica, imitandola in ciò che è il suo principio interiore ("forma"); cioè ricreando in noi stessi l'attività del poeta creatore, mentre tendeva alla bellezza dell'opera come fine in sé e "supremo" ("lo bello stile che m'ha fatto onore"). De vulgari eloquentia 38
  • 7. Ma a fare ciò occorrono, egli dice, ispirazione naturale, fervido ingegno, lungo esercizio d'arte come regolazione impressa nella materia, e immediata intuizione sul da farsi "scientia" nell'ordine operativo: e perciò "abito" o virtù dell'intelligenza, che è propriamente la virtù d'arte. Dopo aver così dichiarato la sua poetica, Dante passa a trattare dell'endecasillabo come il verso che meglio conviene alla canzone per la durata ritmica e le possibilità che offre al pensiero, alla costruzione della frase e alla scelta dei vocaboli. Se associato al settenario, e purché lo subordini a sé, l'endecasillabo acquista rilievo e vigore. In relazione allo stile tragico Dante fissa non solo il tipo e il carattere della "constructio" - organismo della frase in cui si congiungano insieme profondità di pensiero ed eleganza di forma - ma ancora i criteri di scelta delle singole parole. Finalmente egli può esporre, con larga copia di esempi, la teoria della canzone come complesso artistico di stanze, la natura della stanza e gli elementi ond'è costituita: la musica, la disposizione delle rime e il numero dei versi. Ma qui l'opera s'interrompe bruscamente. E tuttavia, anche così incompiuta, essa resta un documento prezioso di quella che fu la prima fase del pensiero di Dante, esule da Firenze e ormai peregrino per ogni parte d'Italia. Sul fondamento di una viva esperienza d'artista e di una larga informazione letteraria, con originalità di ricerche e di logiche deduzioni, egli viene applicando alla storia del linguaggio e alla formazione degli idiomi o lingue comuni il concetto aristotelico tomista della "civilitas"; premessa a ulteriori svolgimenti di pensiero, che informeranno il Convivio, la Monarchia e la Divina Commedia. Il sentimento d'italianità che anima il primo libro con la ricerca del "volgare illustre", si associa in Dante all'amore della poesia, come ispirazione d'ordine naturale che la bellezza suscita: sia questa la bellezza, che nelle cose ci diletta come un bene dell'anima; sia questa la bellezza, che nell'azione ci esalta come un bene della volontà: un bene morale (Rime). Ma qui Dante si individua tra i poeti italiani come il cantore della rettitudine ("drittura") e se ne dà vanto in nome di quel volgare illustre che glorifica i suoi cultori; un'esperienza che egli sente di dover esaltare poiché "per la dolcezza di tale gloria" si sente superiore ai dolori dell'esilio: "huius dulcedine gloriae nostrum exilium postergamus". De vulgari eloquentia 39