In this chapter it is presented Dante's work "Il de Monarchia".
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CAPITOLO 6 – IL DE MONARCHIA
1. CAPITOLO 6 – IL DE MONARCHIA
E’ un trattato di filosofia politica, nel senso aristotelico della parola, scritto in
latino e stampato la prima volta a Basilea nel 1559. Dante vi prospetta, sotto il segno del
Sacro Romano Impero, e quindi in funzione di una concezione cristiana della vita, l'ideale
storico concreto di una "monarchia temporale", cioè legata al tempo e alle vicissitudini
del tempo, il cui oggetto specificatore, entro la sfera delle attività essenzialmente umane,
è la felicità di questa terra. Non si puo precisare quando il trattato sia stato composto: ma
il pensiero che vi sta a fondamento è quello che informa, nel dominio degli stessi principi
metafisici, la Divina Commedia; e che traluce singolarmente nell'ordinamento morale
delle prime due cantiche, concretandosi in raffigurazioni simboliche nel Paradiso
terrestre. Certamente esso è posteriore al Convivio, dove (IV, 4-5), in sede di filosofia
politica, se ne fissano incidentalmente i concetti basilari; gli stessi concetti, che sotto
l'urgenza di avvenimenti storici incalzanti, affiorano, animati da generosa passione, nelle
Epistole, scritte in occasione della discesa in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo.
L'idea del Sacro Romano Impero rifulse allora nel cielo delle speranze di Dante,
oscurandosi subito e tramontando dinanzi all'opposizione di fatto tra l'Imperatore e il
Pontefice, tra l'Impero e la Monarchia francese. Ma nell'ordine della comune civiltà , di
cui Roma era stata la madre, la tendenza di tutti i popoli cristiani verso una superiore
unità organica e spirituale della città terrena, Dante la sentì così radicata nei cuori da
vagheggiarla idealmente di là dalle circostanze avverse spaziando in un mondo unificato
temporalmente da un monarca, così come era spiritualmente unificato dal papa nella
Chiesa di Cristo. Fallita l'impresa di Arrigo VII, è probabile che Dante, ormai pronto a
salire poeticamente nel Paradiso della sua fede, si accingesse alla stesura della
Monarchia, applicando a una materia d'ordine naturale le regole della ragione cristiana.
Dalla sua esperienza di uomo che convive con i suoi simili egli dichiara di trarre
verità non da altri tentate ("intentatas ab aliis ostendere veritates"), con la speranza di
giovare a tutti e di meritarsi la palma della vittoria in una questione aspramente dibattuta,
intorno la quale ha meditato a lungo. Suo proposito è quello di indagare: se la Monarchia
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4. comune da conquistarsi con la concordia e la pace. Questa suprema perfezione della cittÃ
temporale, il cui centro di formazione e di consistenza riposa nella vita della persona
umana, Dante la conosce e la contempla come realtà storica sotto l'Impero di Roma
all'epoca di Augusto.
Pienezza di vita sociale e politica, che Dio stesso volle sanzionare come il tempo
migliore per elevarci a una vita sovrumana e sovrannaturale: alla sua vita intima,
mandando sulla terra il suo Unigenito per compiervi l'opera della nostra redenzione.
Affrontando nel secondo libro la questione se il popolo romano si sia assunto "de iure"
l'ufficio imperiale, Dante confessa d'aver creduto un tempo che causa della conquista
romana fosse stata la violenza; ma un più profondo esame dei fatti storici l'aveva portato
alla certezza che l'Impero di Roma era stato voluto dalla Provvidenza divina. A fondare
razionalmente questa sua certezza egli pone una verità alla quale dovrà riportarsi ogni
argomentazione. Il diritto ("ius"), cioè la diritta ragione che in noi è principio di giustizia,
è un bene che ci viene da Dio. Il diritto preesiste dunque nella mente di Dio ed è nelle
cose una similitudine creata della volontà creatrice, la quale, amando se stessa, vuole
necessariamente il diritto: legge eterna, che è l'arte con la quale la saggezza divina ordina
e dirige provvidenzialmente tutte le cose al loro proprio fine. Ricercare se una cosa sia
avvenuta di diritto vuol dire ricercare se sia avvenuta per volontà di Dio: una volontÃ
occulta, ma i cui segni, nella storia degli uomini, si fanno visibili all'intelletto.
Ora il popolo romano meritò di essere preposto agli altri popoli per virtù proprie e
per le virtù del progenitore Enea, principe giusto e pio, discendente da principi dell'Asia,
dell'Europa e dell'Africa, e nobilissimo per il triplice connubio con regine di tre
continenti. Dio stesso favorì la salvezza di Roma e, invisibile, si fece per essa visibile
mediante miracoli (la caduta dello scudo dal cielo sotto Numa Pompilio, lo schiamazzo
dell'oca del Campidoglio all'avvicinarsi dei Galli, il passaggio a nuoto, attraverso il
Tevere, della vergine Clelia). Ma di là dall'interpretazione religiosa dei fatti leggendari
ond'è materiata la storia di Roma nel suo primo divenire, ciò a cui Dante tien fisso lo
sguardo è la natura particolare del popolo romano, quale esso stesso spontaneamente la
mise in luce e la dispiegò efficacemente nella varia trama delle funzioni sociali e nelle
relazioni d'autorità con gli altri popoli.
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10. ordina tutte al loro proprio fine. La Monarchia di Dante è perciò l'opera di un filosofo
moralista, che considera la condotta umana con il suo fine soprannaturale ed eterno e con
i suoi fini naturali e temporali; ma in vista di questi ultimi fini, postulati dalla natura
stessa dell'uomo, egli deduce razionalmente la necessità di un Monarca, la cui paterna
autorità rispecchi l'universale paternità divina: la missione provvidenziale di Roma,
realizzatrice del diritto o "recta ratio" che risponde all'ordine essenziale di tutte le cose; e
l'indipendenza dell'imperatore dal Pontefice entro questo stesso ordine naturale, che la
grazia sopraeleva intrinsecamente e perfeziona con i suoi doni. Così nell'aspro dibattito
sui rapporti tra Chiesa e Impero, Dante si pone al di sopra dei Curialisti, che si
appoggiavano esclusivamente sulla teologia morale trascurando il fine naturale
dell'uomo, e dei Legisti, che si fondavano unicamente sulle norme positive del Diritto
romano e separavano la morale dalla fede: ed è contro alla pubblicistica francese
contemporanea, che negava la legittimità dell'Impero.
Nella sua concezione della città terrena, o dell'ordine temporale, Dante si attiene
agli stessi principi metafisici di cui si serve san Tommaso nel distinguere i due mondi,
quello della natura e quello della grazia; ma vi porta di suo non solo un sentimento vivo
della civiltà di cui Roma fu madre e in cui rifulse la "forma della ragione", ma ancora una
visione generale della storia umana, dove la funzione dell'Impero romano fu quella di
realizzare la giustizia e la pace, preparando l'avvento del regno di Dio. Storia umana, che
è poi la storia di ogni uomo: individuo nello Stato e parte del corpo sociale, per il cui
bene deve sacrificare, se è necessario, anche la vita; ma contemporaneamente, persona
morale, il cui bene finale suo proprio è Dio, al quale essa è direttamente ordinata. Il
pensiero che informa la Monarchia, ridotto alle sue linee essenziali e liberato dall'irto
groviglio di sillogismi in cui s'intrica e s'attarda, è quello stesso che costituisce il
principio dinamico della Divina Commedia.
Ma il desiderio naturale di felicità , che presuppone un'ordinazione passiva della
nostra volontà al bene razionale, si fa qui la voce diretta del cuore di Dante; e il suo
sforzo di perfezionamento morale, congiunto con l'attività che egli dispiega in mezzo agli
uomini, lo dispone, sotto la guida della ragione naturale, a quel Paradiso terrestre che è il
fine temporale di ogni uomo: vita di pace e d'amore, di contemplazione e di azione, di
libertà e di giustizia. Ideale eterno, nell'ordine naturale e temporale, che nel suo trattato
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11. politico Dante ha vagheggiato sotto il segno del Sacro Romano Impero, legato alle
vicissitudini del tempo e tramontato col tempo.
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