Il contributo, di taglio divulgativo è finalizzato ad evidenziare alcuni punti critici della recente querelle che ha visto Apple Inc. dialogare con l'Amministrazione finanziaria italian in merito a una supposta erosione della base imponibile in Italia ai fini delle imposte dirette.
The article discusses the very recent audit procedure on Apple Inc. that ended up with an agreement between the US multinational and the Italian Revenue service for € 318 bn.
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Il primo morso alla mela (il caso Apple Inc.)
1. Il primo morso alla mela
Marco Greggi (grgmrc@unife.it) è Professore associato di diritto tributario all’Università di Ferrara e Visiting
Professor presso l’Università di Haifa, Law School
Abbiamo imparato tutti, fin da bambini, che il primo morso alla mela è in genere quello più buono. E anche
nell’anno che si è appena chiuso fra festeggiamenti, brindisi, e panettone, riscopriamo che è proprio quel
frutto ad essere più dolce, se non altro dal punto di vista fiscale.
L’Amministrazione finanziaria Italiana, così ci dice la stampa quotidiana ripresa con un po’ di smarrimento da
quella estera, ci consegna la notizia di un accodo transattivo fra il colosso multinazionale americano e l’erario,
per un cifra da capogiro: 318 milioni di Euro. Secondo il fisco, Apple avrebbe omesso di dichiarare redditi
percepiti in Italia per diversi anni (2008 – 2013), facendoli figurare invece come realizzati da una sua società
controllata irlandese. L’Irlanda, come si sa, con le imposte è particolarmente generosa e si accontenta delle
briciole, in cambio di altro.
Non di semplice evasione si dovrebbe trattare, quanto piuttosto di un fenomeno più complesso,
tecnicamente definito Base erosion and Profit Shifting, per dirla con le parole dell’OCSE. L’organizzazione di
Parigi dal 2013i
ha messo al centro dell’attenzione della comunità scientifica (e non solo) i rischi connessi al
comportamento abusivo di diverse società (soprattutto multinazionali) che con operazioni più o meno
sofisticate di tax planning riescono a trasferire i loro profitti presso giurisdizioni fiscali amichevoli. La
situazione poi si complica ancora di più per l’erario dello Stato che subisce l’erosione quando le imposte
dovute sono trasferite non verso uno sperduto paradiso fiscale caraibico, ma presso un Paese partner
dell’Unione europea, magari non meno generoso di un lontano paradiso fiscale, ma protetto dal diritto
comunitario e da principi come quelli della libertà di stabilimento o della libera circolazione dei capitali che,
almeno sulla carta e salvo ipotesi fraudolente, rischiano di tutelare sia il taxpayer che il taxplayer: il
contribuente e l’elusore fiscale.
L’accordo chiuso dalla Apple, il primo per questi importi e a queste latitudini, è forse il segnale che qualcosa
sta cambiando, e sono nel giusto gli analisti americani quando paventano che questo possa essere il primo di
una lunga serie di incidenti: uno per ogni Paese in cui la Apple (ma a questo punto anche le altre
multinazionali del settore IT … e non solo loro) ha adottato lo stesso business plan.
Quale ? In Italia, solo le autorità competenti sanno davvero la natura delle contestazioni e i rilievi mossi nello
specifico: si possono però fare delle supposizioni.
Le norme del diritto tributario internazionale (Articolo 7 del Modello di Convenzione OCSE, ad esempio)
insegnano che una società che non risiede in un Paese (come Apple Distribution International Ltd., che
appunto sta in Italia ma in Irlanda) ci paga le imposte sul reddito solo se possiede lì una stabile organizzazione,
cioè una sede fissa d’affari attraverso la quale essa esercita in tutto o in parte la sua attività. Apple Irlanda
questa sede in Italia non la possiede, perché vende i prodotti online, attraverso il sito web Apple, visitato
giornalmente da migliaia di Italiani ingolositi dalle ultime novità tecnologiche che la società di Cupertino
mette a disposizione. Quindi la conclusione è presto raggiunta: imposte sul reddito in Italia pari a zero.
Vero è che esiste in Italia una società Apple, e che ci sono, sparsi nella penisola, svariati Apple Store.
2. Ma si tratta di società diverse, che regolarmente pagano le imposte in Italia, ma solo per i profitti ad esse
attribuibili: insomma, per i dispositivi elettronici (iPad, iPhone e così via) venduti in negozio o per i servizi
prestati, non anche per quelli online (che sono il boccone più grosso e appetitoso per il fisco).
Ma cosa succede se, ad esempio, la società italiana (e qui residente) lavora anche nell’interesse della società
irlandese, ad esempio svolgendo attività di ricerca, consulenza, backoffice, contatto con la clientela ? I confini
fra le due, apparentemente chiari e incontrovertibili, cominciano a sfumare verso una zona grigia che, si sa,
è sempre pericolosa.
Probabilmente su questa ambiguità si è poggiato il lavoro (encomiabile) delle autorità, che hanno potuto
correttamente sostenere che allora una sede fissa d’affari in Italia l’Apple irlandese l’aveva (e l’ha) … ed è la
società controllata qui costituita. Non è la prima volta che questo accade nel nostro paese: già circa quindici
anni fa un analogo risultato era stato raggiunto con un’altra multinazionale americana, la Philip Morris: altri
tempi, altri prodotti.
Nel caso del 2001 ad andare in fumo (è il caso di dirlo !) era stata una operazione di pianificazione fiscale che
ruotava attorno a una società controllata residente in Italia e che svolgeva attività di supporto (divenendo
così stabile organizzazione) per l’intero gruppo multinazionale.
Pesanti erano state, ai tempi, le critiche della letteratura al giudizio dei magistrati, e sorprendente fu anche
la reazione dell’OCSE, che rapidamente intervenne per marcare le sue distanze dalla posizione assunta dalla
giurisprudenza italiana. Oggi, ironia della sorte, l’OCSE è in prima linea proprio nel denunciare comportamenti
delle società che trasferiscono i loro profitti presso Paesi più accomodanti, e sollecita gli Stati ad adottare
politiche al riguardo.
E qui veniamo al caso dell’Italia.
Fino all’ultimo decreto sulla “internazionalizzazione” del sistema tributario il legislatore ha investito molto (e
giustamente) sui rapporti con l’estero, nel tentativo in incrementare la quota degli investimenti esteri nel
nostro Paese, ancora straordinariamente bassa.
Uno degli strumenti privilegiati, che ne è uscito ulteriormente rafforzato, è quello dell’interpello: attraverso
questo procedimento l’imprenditore può “provocare” l’Amministrazione finanziaria a fornire risposte sul
regime fiscale di determinati investimenti, o sulla correttezza fiscale di business plan particolarmente
complessi. Si tratta di un’altra, maggiore, responsabilizzazione per le Agenzie fiscali e per i loro funzionari di
punta. Si tratta però, anche, dell’ennesima abdicazione dell’imposta dovuta in base alla legge ad accordi che
finiscono per essere percepiti come delle transazioni.
Oggi tutti celebrano, e giustamente, il morso alla mela e i milioni riportati nelle casse dello Stato: lo spicchio
una piccola manovra finanziaria. È però anche vero che l’imposta (asseritamente) erosa da Apple nel
quinquennio 2008 – 2013 nel nostro Paese è pari a € 880 milioni secondo la stampa specialistica, e che
dunque lo sconto di cui Cupertino ha beneficiato è di circa 2/3 (o poco meno) di quanto avrebbe dovuto
pagare.
Al contribuente medio italiano è impegnativo spiegare che ora è come se la multinazionale avesse pagato, in
tutti questi anni, un’imposta sul reddito che si aggira sul 10% (o poco meno): è difficile anche risvegliarsi dopo
il capodanno e, guardandosi allo specchio, scoprire che sotto sotto siamo diventati Irlanda pure noi. Ma solo
per alcuni.
i
OECD, Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting, Parigi, 2013.